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Quando la fermentazione era una questione di stregoneria

La birra, come il vino e molte altre bevande fermentate, è un prodotto spontaneo della natura, di cui l’uomo nel tempo ha imparato a conoscere e gestire il processo di fabbricazione.

Ma il fenomeno della fermentazione alcolica, fino ad un passato non poi così lontano, era legato ad un ambito magico, quasi esoterico, ricco di superstizioni e segni allegorici.

Lémery, storico scienziato ed indagatore dei fenomeni della natura, nel 1684 così definì la trasformazione degli zuccheri del mosto in alcol: “la fermentazione è una ebullizione causata da spiriti che, cercando una via di uscita da qualche corpo e incontrando delle parti terrestri e grossolane che si oppongono al loro passaggio, fanno gonfiare e rarefare la materia fino a quando essi si siano staccati. Ora, in questo distacco, gli spiriti dividono, assottigliano e separano i principi, rendendo così la materia di natura diversa da quella che era precedentemente”.

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Se questa era la definizione erudita dei processi di trasformazione delle bevande alcoliche, viene facile comprendere come il fenomeno potesse essere rielaborato in termini soprannaturali e paranormali  dalla cultura popolare, soggiogata peraltro dalle credenze e dalle intimidazioni del potere religioso dell’epoca.

Nelle  culture nordiche, le donne erano le principali responsabili della produzione del mosto, ma veniva bandita loro la possibilità di predisporre e gestire la fermentazione, in quanto si riteneva che a causa del ciclo mestruale potessero influenzare negativamente la vita dei misteriosi spiriti.

L’andamento della fermentazione era considerato un importante segno premonitore del destino della famiglia: se la fermentazione fosse stata stentata in fase di avvio erano attesi dispiaceri e brutte notizie; qualora il mosto avesse subito delle gravi alterazioni si temevano gravi disgrazie.

Le turbe del processo di fermentazione erano attribuite dalla tradizione popolare all’influsso negativo di spiriti malefici e streghe: per questo i locali di fermentazione erano chiusi con attenzione, in modo da preservare l’accesso ai maligni, così pure sarebbe stato nefasto l’ingresso di un gatto, soprattutto se dal manto nero.

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Durante la fermentazione era, inoltre, necessario camminare con dolcezza, possibilmente in punta di piedi, evitare di provocare rumori, vibrazioni e tremolii perché avrebbero potuto disturbare il lavoro degli spiriti prima della loro caduta nel sonno profondo a cui erano destinati una volta terminati gli zuccheri del mosto.

Un insieme di credenze che, di fatto, sono regole empiriche che trovano ragioni oggi scientificamente spiegabili: porte e finestre chiuse permettevano di limitare gli sbalzi termici, evitare le vibrazioni determinava una miglior sedimentazione del lievito e una più valida chiarificazione della bevanda.

Solo dopo circa due secoli, grazie agli studi di Luis Pasteur, la comunità scientifica e popolare prese coscienza che la fermentazione non era una stregoneria, ma un processo condotto da veri e propri esseri viventi con esigenze e caratteristiche vitali ben precise, studiabili, prevedibili e governabili.

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In seguito si scoprì che esistono varie specie di microrganismi, capaci di svolgere trasformazioni differenti, in alcuni casi utili, spesso nefaste per la commestibilità e la serbevolezza della bevanda.

Il microbiologo Spallanzani attorno alla fine del Settecento riuscì ad isolare al microscopio una singola cellula di lievito e a produrne una coltura pura, ma fu Hansen quasi un secolo più tardi a sviluppare ed introdurre l’uso degli starter microbici per la produzione delle bevande fermentate.